Dato che i sondaggi annunciano una disfatta elettorale per la sinistra di governo (il Pd e la costellazione dei partiti che gli ruotano attorno), da più parti vengono prefigurati scenari terribili. L'Italia è descritta a tinte sempre più fosche e si cerca di far credere che ogni scelta di segno liberale (meno imposte e meno regole) sia destinata a peggiorare il quadro. Fino a ieri si voleva far credere che tutto stesse andando verso il meglio, poiché Mario Draghi e i suoi stavano guidando l'economia verso un progressivo consolidamento; oggi, al contrario, si mostra un'attenzione ossessiva alla tenuta dei conti e si vorrebbe evitare ogni minimo rischio di deficit: costi quel che costi.
Sorprende che gli stessi politici che ci hanno venduto l'indebitamento del Pnrr come un affare per tutti gli italiani, adesso sembrino spostare le logiche della Destra storica, che nel 1876 raggiunse il pareggio di bilancio. Suona poi paradossale che pure quanti tendono a presentarsi come «liberali», si pensi a Carlo Calenda, antepongano a ogni altra cosa il rigetto della flat tax.
Una cosa è fuori discussione: l'attuale situazione economica è oggettivamente difficile. C'è però un dato cruciale, e cioè che negli ultimi 11 anni il Pd è stato fuori dal governo soltanto durante il primo governo Conte, da metà 2018 a metà 2019 (quando la maggioranza parlamentare era composta dall'alleanza tra Cinquestelle e Lega). Negli altri dieci anni i democratici hanno avuto in mano non soltanto le principali leve dei media e dell'economia, ma anche tutte le fondamentali posizioni politiche: a partire, naturalmente, dalla presidenza della Repubblica.
Quando allora evidenziano i problemi del Paese, innanzi tutto essi dovrebbero recitare un mea culpa, dato che sono stati i loro innumerevoli «bonus» assistenziali, la loro retorica ambientalista e il loro mito di un'economia governata dall'alto a portarci nella difficile situazione attuale. Tra l'altro, che ci sia la necessità di ridurre le imposte emerge anche da quanto hanno scrivono i tecnici del Servizio Bilancio del Senato, persuasi che una rigorosa difesa dell'obiettivo del 60% del rapporto debito/Pil ostacoli ogni riduzione della pressione tributaria.
Non bastasse ciò, oggi il Pd di Enrico Letta sa proporre solo ulteriori elargizioni elettorali e nuove tasse: come quando parla di un «bonus-giovani» da finanziare con l'imposta di successione sui patrimoni plurimilionari (una proposta orrendamente populista, che può soltanto spingere a emigrare quanti dispongono di ingenti capitali). Il segretario denuncia gli altri di demagogia e scarso realismo, ma mette sotto processo la pagliuzza altrui perché spera in tal nodo di nascondere la trave nel suo occhio. Lo schema della campagna lanciata dal Pd, comunque, è oggi il seguente: la situazione è terribile e lo sarà ancora di più se perderemo, e di conseguenza se dovremo consegnare il governo a chi propone una qualche riduzione delle tasse. Da qui tale rappresentazione sempre più cupa: come già avvenne nel 2011, quando si usò lo spread per far saltare il governo Berlusconi. Invece che incalzare i partiti di centro-destra chiedendo loro dove intendono ridimensionare il bilancio, i democratici protestano di fronte a ogni ipotesi di contenimento del potere statale, e questo perché non vogliono tagliare le spese, dato che incarnano il partito della spesa pubblica.
Tifare per il peggio, come fanno oggi gli opinionisti progressisti e i politici di lungo corso della sinistra (disperati dinanzi all'ipotesi di dover collocarsi all'opposizione), non è mai una bella cosa. Soprattutto se lo si fa con la speranza che nulla cambi, soprattutto per le proprie rendite di posizione.
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