Le trasformazioni avvenute all'interno del mondo grillino sono ormai così tante che viene quasi il dubbio che sia proprio l'aria pentastellata ad essere psichedelica. Chi nasce incendiario quando va nel M5S diventa pompiere e chi entra da Vigile del Fuoco finisce col diventare piromane. Luigi Di Maio ha coperto il primo tragitto, eletto in Parlamento con i voti degli anti-casta, anti-politica, anti-sistema, è ormai il paladino del draghismo e il fautore di una narrazione talmente moderata da essere inesistente. Giuseppe Conte, al contrario, era approdato in politica da tecnico, da "avvocato del popolo" chiamato a dover mettere d'accordo a colpi di contratti, clausole e carte bollate proprio gli anti-establishment Di Maio e Salvini. Ora invece, a soffiare sul fuoco della lotta allo status quo c'è rimasto praticamente solo lui.
Il problema è che, se da un lato Conte veleggia verso la "riscoperta del populismo", dall'altro la verità è che, dopo la scelta di pugnalare politicamente il governo Draghi, è diventato il leader più odiato d'Italia. Anche più di Matteo Renzi. Perché se le mosse dell'ex sindaco di Firenze, per quanto scioccanti, un senso sembrano averlo (come quella di aver fatto cadere proprio Conte), quelle del nativo di Volturara Appula hanno come unico scopo non tanto il populismo quanto il vittimismo.
Conte si sta riciclando anti-establishment non per scelta sua, quindi. Perché quell'establishment che lo aveva acclamato, coccolato e vezzeggiato, ora non lo vuole più. Basta vedere quanto accaduto al Forum Ambrosetti. Il capo dei 5 Stelle è stato l'unico big a disertare l'appuntamento a Villa D'Este e a collegarsi da remoto. La giustificazione ufficiale? La più populista possibile: "Avevo preso impegni già da tempo, ho incontrato cittadini e famiglie che stanno soffrendo, associazioni con cui avevo un impegno, se non fossi andato lì sarebbe stata mancanza di rispetto".
Come se agli altri leader la cosa non interessasse, quindi. Peccato che negli anni precedenti, da premier, a Cernobbio era andato di persona, sebbene ci fossero già problemi discretamente urgenti come la pandemia, le prime basi del Pnrr e la crisi del suo stesso esecutivo. A parte nel 2021 quando, guarda caso, intervenne da remoto perché Primo Ministro non lo era già più e al Forum Ambrosetti avrebbe rimediato giusto qualche pernacchia. Al Meeting di Rimini di fine agosto, invece, dove nel 2021 era presente nonostante gli attacchi di Beppe Grillo al movimento di Comunione e liberazione, Conte non c'era perché l'invito non è arrivato proprio. Motivo? Il presidente del M5S non poteva essere inserito nell'incontro con i leader perché riservato solo alle forze aderenti all'intergruppo parlamentare per la sussidiarietà (i grillini sono tutti con Di Maio). Ma la deroga a Carlo Calenda è stata concessa mentre a Conte no. Da rimbalzato, ha scelto quindi di riscoprirsi populista.
Populista di sinistra, per la verità. Tanto per farsi qualche altro nemico pure nel mondo degli ultraprogressisti. Come Nicola Fratoianni, a cui non va a genio che qualcun altro si possa intestare il primato della "vera sinistra": "Quello di stabilire il grado di genuinità di sé stessi è un vecchio vizio che non ha mai portato troppa fortuna a sinistra", spiega. Per non parlare del Pd che dopo lo strappo operato da Conte sia in Sicilia che a livello nazionale non lo vuole più vedere nemmeno a tiro di cannone (per ora, perché dopo il 25 settembre torneranno a fare accordi e anzi a livello regionale, come nel Lazio, già ci sono).
Conte, insomma, ama farsi odiare da tutti per poi giocare a fare il perseguitato. Una carta, quella del piagnisteo, che potrebbe anche portare dividendi, visti i sondaggi piuttosto stabili e visto che intorno alla sua figura stanno facendo quadrato gli irriducibili fan del leader "senza macchia e senza paura" capace di salvare tutti noi da morte certa durante la pandemia. Si tratta di un pubblico ancora numeroso, composto da cheerleader dell'ex premier, orfani del grillismo autentico, sostenitori tout court (e percettori?) del reddito di cittadinanza. Proprio ciò che Conte rivendica come suo biglietto da visita: "Il reddito di cittadinanza aiuta i poveri. Il Superbonus aiuta le famiglie e va nella direzione della transizione ecologica. Il cashback dava soldi ai consumatori che usavano la carta. Abbiamo tagliato vitalizi, le pensioni d'oro e numero dei parlamentari. Cioè abbiamo fatto cose buone. Eppure siamo demonizzati da tutti in modo esagerato. L'unica spiegazione è che ci siamo occupati dei cittadini e non dei poteri forti", dice. Dimenticando che: il reddito di cittadinanza l'ha introdotto Di Maio, ed è stato ed è tutt'ora un fallimento; il superbonus è stato revocato per disperazione da Draghi dopo le truffe miliardarie ai danni dello Stato; il cashback è stata la prima misura abolita dopo la caduta del Conte II.
L'ultima calamita di astio condiviso da tutti Conte l'ha rimediata in politica estera. Mentre prega per un selfie con il leader della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon (i vertici del Movimento sognano il suo arrivo in Italia per domani), Giuseppi ha incassato l'endorsement meno gradito dal suo elettorato e meno confacente alla sua nuova veste di novello Che Guevara: quello di Donald Trump. Proprio l'inventore, involontario, del nomignolo. L'ex presidente americano a Repubblica ha detto di tifare per il leader M5S alle elezioni del 25 settembre: "Ho lavorato bene con lui, spero che faccia bene", chiamandolo addirittura "my guy", il mio ragazzo. Un assist in più per istituzioni, partiti, elettori che lo considerano inaffidabile. E un motivo in più per lui per giocare a fare Calimero.
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